Come e perché nasce un Moscerino

"Ciumbia" di Luigi Chirico.

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Un giorno, ero già un appassionato velista senza barca, decisi che la mia disponibilità di tempo libero non permetteva di possedere una barca di 6 o 7 metri , magari anche solo al lago, i costi poi erano altissimi; Decisi quindi di costruirne una piccola che non avesse problemi di burocrazia, tasse e ingombri.
Sfogliando Bolina, noto la pubblicità della BCA Demco Kit, che dice di vendere progetti per barche.


Faccio spedire il catalogo con i progetti, poi, non comprendendo bene dai disegni cosa si addiceva al mio caso, venni a sapere, da Paolo Lodigiani, titolare della BCA, che la Domenica successiva si sarebbe svolta una regata di 10’, non ricordo neppure dove.
Andai, con la moglie, mia consulente e designer di tutte le opere che realizzo, e lei decise che quella barchetta la in fondo, con fiocco e randa, era la più elegante di tutte.


Chiesi lumi ai presenti e mi sentii rispondere che si trattava del Moscerino, un progetto di Ratti-Spreafico, datato ma ancora valido.
Aveva proprio la parvenza di una barca inglese, belle forme, linea classica, decisi che sarebbe stata la mia barca.


A Settembre del 2000 D.C., uscendo dalla Fiera di Milano, mi faccio una bella camminata e raggiungo la sede della BCA, dove acquisto i piani del Moscerino, tre fogli A3 senza spiegazioni.
Chiedo lumi al paziente Paolo, che mi illumina sui dettagli progettuali (come la “tavola Regina”, di cui non avevo mai sentito parlare), poi, alternativamente, stresso il buon Guido Ratti, progettista e realizzatore di diversi Moscerini.
Non vi è come vedere dal vero una cosa per capire come la devi fare, cosa migliorare e quali tecniche mettere a punto.


Di qui la ricerca dell’abete rigatino, che tutti dicono non esistere, perché le piante “hanno i nodi”, fino a trovare, da una segheria che fornisce legni per liutai ed ebanisti, una partita di Cedro Rosso Canadese, detto anche Western Red Cedar, una pianta del Nord America, che cresce altissima e ha fronde solo nella parte alta del fusto, lasciando un tronco con fibre drittissime e senza nodi.


Quando poi, mi viene detto, che è imputrescibile all’acqua e resistente agli insetti Silofagi, oltre a pesare molto meno dell’abete, non ho più dubbi, ne acquisto 4 travi da 4,5 mt, superstagionate, chiudendo gli occhi sul prezzo (4.000.000 L./m3), 400.000 lire di legname, ai tempi della buona Lira, chissà adesso con l’Euro.
Spedizione alla Nord compensati, per il CM di Okumè da 5mm., circa 80.000 lire al foglio, 3 fogli, per fortuna le parti in 10 e 15 mm. Le riesco a fare con del CM che mi viene donato da un amico, che ha un amico in un cantiere brianzolo di Yacht a motore, per loro certe pezzature sono scarto di lavorazione.


Documentatomi alla BCA, decido di utilizzare la resina epoxy West System, costosissima ma indubbiamente la migliore resina che mi sia capitato di usare, nessun odore sgradevole, durezza superficiale eccezionale, tempi di lavorabilità lunghi (con indurente lento), anche se poi, in ultimo, usai un Kg. Di Veneziani Resina 2000, che con i dosatori a pompa rese la vita più semplice.
Guido Ratti si offrì di tracciarmi i fogli di CM con delle dime che lui possedeva, ma mi dissi che anche la tracciatura era parte del godimento, poi io ho sempre amato il disegno tecnico.


Ginocchia come zampogne a stare sempre piegato per tirare le righe, poi tutti i chiodini e il listello flessibile per tracciale le curve dei semiscafi, la miriade di forellini per la legatura con il filo di rame.
Ricordo ancora quando, dovendo aprire e dare forma ai due semiscafi, chiamai un amico e gli dissi….cosa fai stasera ? Ho mia madre a cena, perché ? Peccato, mi serviva una mano per aprire gli scafi e mettere in posa lo specchio di poppa…….a ma se è per cose così importanti basta dirlo, a che ora devo essere li ? pensare che la mia barca era, per lui, più urgente della Mamma, ancora oggi mi commuove.
E poi le prime resinate, le nastrature con tessuto di vetro, le cordonature, l’emozione di vedere, il giorno dopo, che il tutto aveva una consistenza fantastica, ispirava
sicurezza.

 

La barca evolveva, ed io con lei, accorgendomi che più passava il tempo e più tutto diventava famigliare, meno oscuro, mi muovevo con sicurezza.
Avendo il laboratorio dove avevo installato il cantiere di fianco al negozio dove lavoro, l’inverno, stagione per i “ciclisti” di vacche magre, era propizia per buttarsi corpo e anima in questa impresa.
Ammetto ed avverto i lettori che io, già da quattro anni, avevo iniziato l’hobby della falegnameria, possedendo macchinari industriali che rendono tutte le lavorazioni del legno possibili.
Avere la fortuna di possedere lo spazio dove lavorare al caldo , poi, anziché all’aperto, trasforma in un piacere puro ciò che per tanti è uno stress e una fatica.
Fissati i correntizi che sorreggono la coperta, assolutamente senza viti, solo colla e morsetti, ho poggiato la coperta in posizione, avendo così il riferimento di dove andare a fissare le pareti verticali delle panche di seduta, che sono poi anche le casse stagne di galleggiamento; fissate queste con una cordonatura esterna, ho poi tolto la coperta e le ho nastrate dall’interno , così da non vedere nulla da fuori.
Sigillate le casse nella parte anteriore, ho poi resinato la coperta, qui ho dovuto per forza mettere delle viti inox sul perimetro esterno, non potendo usare morsetti.

 

 

Il tocco di classe è stato il chiudere i buchi dove si vedono le teste delle viti, con dei piccoli dischetti di piallaccio di mogano, volutamente più scuro dell’Okumè, così da evidenziare il dettaglio.
Messa in posizione la cassa di deriva con i suoi tre listelli di seduta, l’interno era ormai pronto.
Girata la barca e levigato bene lo scafo, ho dato due mani di epoxy, poi una mano di fondo epoxy e due mani di poliuretanica bicomponente Blu, preceduta da una fascia bianca, poco sotto la falchetta, sulla quale è stato posizionato del nastro da carrozziere da venti millimetri, così che togliendolo, dopo le mani di blu, lasciava una bella linea bianca, molto “Inglese”.
Fissata la ferramenta, andando un pochino a tentoni, in quanto non vi era un piano preciso su cui fare riferimento, andai dal velaio a commissionare Randa (4,8 Mq.) e Fiocco (1,2 Mq.)

 

         

 

         

 

            

      

 

 

Le prove tecniche
Il primo varo avvenne verso la fine dell’estate 2001, sul lago di Oggiono, in compagnia di una amico, non si muoveva un filo di vento, io feci un piccolo giro pompando con la pala del timone, grande delusione.


Il debutto, se non ricordo male, avvenne a Cernobbio, dove si svolgeva l’ultima gara dell’anno, mi iscrissi e andai in acqua, ma l’esperienza fu tragica…la barca andava solo al traverso, non voleva saperne di bulinare, quindi non riuscivo neppure a virare in prua, continuavo ad andare avanti e indietro dal molo, sempre al traverso, strambando ad ogni passaggio.

Che delusione, poi, sono pure scaduto sottovento e , non potendo risalire, sono andato a riva, dove il fondale era poco, saltando in acqua e trascinando la barca a mano per cinquanta metri, le gambe gelide…che brutto ricordo.

 

Col fiocco autovirante la barca non voleva saperne di andare dove volevo io, quindi, tornato a casa, cominciano le modifiche….via l’autovirante, fai un bompresso, la vela sempre più fuori, poi sempre più grossa, sino a diventare troppo poggiera; Poi le prove con derive diverse, e le pale dei timoni, più sottili e profonde, ma è tutto sbagliato, quindi ritorno a deriva e timone originale.


Sono anche stato bloccato con la schiena per un lungo tempo, quindi feci il timone che si muoveva con una pedaliera, io stavo sdraiato tipo Formula 1 dentro la barca, ma di bolina era un’impresa, non potendo sbilanciarmi all’esterno.
Dopo tre anni di sofferenze, finalmente , nel 2004, con il fiocco fissato sul muso a prua, l’arretramento dei punti di scotta del fiocco, le sartie che irrigidiscono l’albero e non fanno fare catenaria al fiocco, la barca comincia ad andare, stringe la bolina, accelera bene e di colpo, con tre regate, siamo a metà della classifica.
Ora non vedo l’ora di iniziare il nuovo anno, conscio di non poter dare la birra ai primi, ormai imprendibili sui loro multiscafi, ma con la certezza che a poppa della mia barca, non saranno pochi quelli che dovranno accontentarsi dei rifiuti della mia randa.


Nel progetto del Moscerino, l’armo è alla Portoghese, con un picco di 2,5 mt. Che si sovrappone in verticale all’albero di 3,5 mt., molto bello da vedersi, utile perché permette di terzarolare la randa, ma per nulla redditizio nei confronti di un tubo di alluminio, anche leggero, con due sartiale (sempre per la catenaria).

 

Quindi se vi accingete alla realizzazione di questo scafo e non disponete di tempo, l’alberatura fatela in metallo, pesa uguale e si costruisce in un baleno.
Io feci un albero in alluminio con dei pali da 60 mm, che costituivano l’ossatura di un deltaplano precipitato , li produce la “Mouet”, in Francia, sono leggerissimi, entrano uno nell’altro con precisione, quindi si possono distribuire gli sforzi aumentando lo spessore mentre si scende verso la mastra.


Peccato che quel diametro entra un poco forzato nelle tasche della vela, quindi , a volte, la randa non si dispone in modo aerodinamico rispetto all’albero.
Per la stagione 2006, vorrei realizzare qualcosa di accattivante e prestazionale, quindi non stupitevi se durante le regate 2005 mi vedrete appostato dietro i cespugli con la macchina fotografica, rubando segreti di altri regalanti.


Concludo invitando gli aspiranti costruttori a provarci, la gioia di vedere una barca fatta con le proprie mani è seconda solo a quella di mettere al mondo un figlio.

Dicembre 2004, Luigi Chirico

 

Un altro articolo su "Ciumbia" e' presente su Cantierino

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